venerdì 17 luglio 2009

Lettera (52)




L'altro giorno ho realizzato uno dei miei sogni di quand'ero piccolo, ho provato una macchina da scrivere. Originale d'epoca, se si può parlare di epoca riferendosi a quasi trent'anni fa. Una Lettera 52 (1980) della Olivetti, la marca più venduta e famosa in Italia. Se non si ha davanti un oggetto simile non si può parlarne. Bisogna relazionarcisi, è questo il punto. Appena l'ho vista in camera della mia zia, riesumata ma in ottimo stato, l'ho presa e l'ho portata in una scrivania davanti a una finestra, per avere maggiore visibilità. Un minuto e mezzo dopo, il tempo impiegato per capire dove andava infilato il foglio, sono partito. Il rullo era originale però l'inchiostro un pò secco. Le prime lettere battute, a casaccio, tanto per provare, non venivano scritte sul foglio. Ho provato a battere più forte e allora sono venute. Ma anche in passato bisognava avere diti potenti così? Mi sono adeguato alla circostanza, d'altra parte con un oggetto simbolico e mitico così non c'era tanto da sindacare. Non riuscivo a guardare solo i tasti, dovevo ammirarla tutta, nella sua imponenza grigio-bianca. Il foglio intanto scorreva, altri due minuti per capire come andare a capo. L'operazione è manuale, non basta premere invio, che d'altronde non c'è nemmeno. Una levettina vicino al foglio a sinistra dava l'avvio a un nuovo rigo di scrittura. Prima facevo scorrere il foglio ma non funzionava, serve solo a inserire il foglio. Mezza pagina l'ho scritta solo per abituarmi, poi ho cominciato a fare un discorso serio. Ho riportato un pò delle parole che sto scrivendo, le impressioni che mi dava quest'oggetto, nulla di più, anche perchè non avevo nient'altro da scrivere. Immaginavo chi potevo sembrare davanti questa macchina da scrivere in un pomeriggio assolato di Luglio. Un detective privato mentre scrive l'ennesima relazione per l'ennesimo caso risolto, con un sigarino in bocca, camicia e pantaloni color cappuccino tenuti su da bretelle nere sottili ma ben resistenti. Vicino alla porta l'attaccapanni con l'impermeabile d'ordinanza, vecchi armadi con fascicoli ammassati, la porta a vetri con nome, cognome e qualifica scritte con scotch nero. E lo scotch, il liquore, che riempiva per un quarto il bicchiere appoggiato accanto la macchina da scrivere. Oppure, molto ironicamente, la signora Fletcher, in attesa di poter infliggere qualche rito voodoo per formare un'altra puntata della serie. Se non fosse che è un pò troppo nuova per essere la macchina da scrivere che si vede nella sigla iniziale. Oppure un qualsiasi giornalista di più di 30 anni fa. Nel mentre scrivevo, impreciso, sbavando, sbagliando le lettere (dovete sapere che la tastiera è ordinata in modo diverso rispetto a una tastiera del computer, infatti la z è al posto della w, la m è vicino alla l e poi mancano ovviamente alcuni tasti), ciccando le lettere perchè usavo la mano sinistra. Ci vuole molto esercizio, una specie di ginnastica ditale, se così si può chiamare, prima di poter scrivere qualcosa di leggibile. Poi il rumore, favoloso. Per scrivere lettere impresse nel foglio bisogna picchiare sodo, e questo picchiare dava un rumore strano, molto meno delicato di quello che sto sentendo in questo momento mentre scrivo. Un rumore secco, tribale, un concerto di percussioni, monotòno e scoordinato, ma bellissimo. Cerco di scrivere non velocemente, ma con un ritmo, per andare più scorrevolmente e sforzarmi sempre meno. Un concerto di percussioni davanti l'anfiteatro delle aste con le lettere. E' un opera, vera e propria. L'entrata sono i gradoni dei tasti, molto irti, per questo è difficile scrivere con tutta la mano, uno massimo due diti per mano. Rileggo le lettere impresse. Sono il significato della letteratura, qualcosa di impresso, non correggibile se non con qualche rimedio visibilmente brutto. Il foglio rimarrà così, eternamente, e niente lo cambierà, se non lo scorrere del tempo e con esso il deteriorarsi della carta. Ma quello che è stato deciso dallo scrittore non si tocca, nossignore. Bisogna essere responsabili verso l'umanità intera di ciò che si scrive, una ripresa in chiave tipografica della filosofia sartriana. C'è da esserne orgogliosi. Orgoglio di scrivere qualcosa d'importante e orgoglio di fare anche un pò fatica per farlo, perchè tutto il corpo è concentrato e in azione per dare il meglio di sè in poche righe. Impiego piccoli gesti, ma importanti, in quest'era digitale statica fisicamente e dinamica mentalmente. Arrivo in fondo al foglio, ma non voglio continuare, mi è bastato. Forse un giorno ne comprerò una per me, e forse anche questo blog lo pubblicherò su carta stampata a macchina, ovviamente scannerizzata al computer. Per non perdere il vecchio ma nemmeno rifiutare il nuovo.

1 commento:

  1. fantastico quest'intervento...
    forse perchè io (tu potrai dire fortunatamente) l'ho sempre avuta in casa una macchina da scrivere, e so come è scrivere con un'oggetto così affascinante nella sua semplicità...ed è esattamente come l'hai descritta, se non che io avrei accentuato la fatica nel premere quei tasti, e la fatica ancora maggiore quando, volendo correggere un'errore, dovevi pigiare con maggior "aggressività" in modo da mascherare la lettera sbagliata...
    ps davvero simpatica e coinvolgente la "mimetizzazione" del detective...
    ciao!!

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